Descrizione
L’Haiku, antica forma poetica giapponese, ha uno schema rigido. Ineludibile. Si compone di tre soli versi. Il primo e il terzo hanno cinque sillabe, il secondo sette
La tradizione impone un riferimento (in giapponese Kigo) a una delle quattro stagioni, diretto o indiretto che sia. È ammesso anche, ma non universalmente, il piccolo kigo, ovvero l’ispirazione data da un momento della giornata: l’alba, il mezzogiorno, la luna e le sue fasi. Di più, l’ultimo verso è spesso (ma non obbligatoriamente) spiazzante rispetto ai primi due. Ribalta il significato stesso della composizione. In ogni caso l’Haiku deve lasciare un senso di sospensione, di vuoto, di silenzio. Deve cominciare, come ha scritto qualcuno, solo quando si è letto l’ultimo verso.
Non deve avere nemmeno un titolo. È, a tutti gli effetti, una forma di meditazione zen, come la preparazione del te o l’arte di disporre i fiori.
L’Haiku scatena polemiche furibonde fra tradizionalisti e traditori della tradizione. Non solo in occidente. Gli haijn giapponesi litigano tanto quanto i loro emuli del sol ponente. Alcuni sostengono che la tradizione va rispettata ferramente, altri teorizzano una maggiore libertà. Succede sempre così nelle arti vere. L’Haiku è diventato un linguaggio universale. Nelle scuole marocchine è materia d’insegnamento perché ritenuto adatto a sviluppare un necessario senso della sintesi.
Non so perché ho cominciato a scrivere Haiku. So che li ho scoperti grazie a un amico musicista, Roberto Bonati, che scrisse anni fa una serie di brani (purtroppo mai incisi in disco) ispirati all’arte del 5-7-5.
Ho cominciato a comporne alcuni per gioco, pubblicandoli su due gruppi Facebook. Sono diventati lentamente un’esigenza, una specie di rito serale, un esercizio di scarnificazione della scrittura, una palestra di essenzialità. Non credo di sentirmi un poeta (anche se non credo che giornalismo e poesia, come diceva Jorge Luis Borges, siano sempre antitetici), non sono attratto dalle filosofie orientali né pratico forme di meditazione.
Forse, anche per motivi anagrafici, ho solo sentito la necessità di sintetizzare in qualche maniera la vita e i suoi paradossi infiniti, i suoi continui mutamenti. L’infinita precarietà di ogni singolo minuto.
E via via che i miei piccoli componimenti vedevano la luce, ho capito che al centro di questo fluire di pensieri instabili c’era sempre, massiccia e un po’ beffarda, la presenza dello scoglio natio. L’isola lasciata tanti anni fa con leopardiana insofferenza e poi ritrovata ed amata. Lo scoglio su cui la mia famiglia, come le meduse, è stata trascinata dalle correnti imprevedibili dell’esistenza. In ognuno dei miei lavori c’è un ricordo, una sensazione, spesso indefinita e inspiegabile, legata alla mia terra. Ogni tramonto è modellato su un tramonto isolano. Le mie lune veleggiano sui muri delle fortezze medicee. La vasta pianura nella quale ho passato la maggior parte della mia vita non mi ha quasi mai ispirato un buon Haiku. L’afa padana, per capirsi, è molto meno poetica dello scirocco.
Angela Galli ha avuto l’intuizione di immergere i miei piccoli giochi poetici in una luce indistinta, in un’atmosfera di bianco e nero che lascia sfumare i colori forti dei miei sogni isolani in una sorta di penombra. Queste foto rendono in pieno il sentimento che ha animato la mia scrittura. Sentimento che può essere descritto con una meravigliosa parola portoghese: saudade. Che vuol dire malinconia indefinita, rimpianto, inquietudine, rivolta tanto al passato quanto al futuro. Non necessariamente un sentimento triste e negativo. Forse, come scriveva Antonio Tabucchi, la traduzione migliore di saudade è il dantesco disio.
Fotografare significa, secondo l’etimologia greca, scrivere con la luce. E con le ombre. Angela, Franca Geri e Claudio Casadio hanno perfettamente capito il senso della mia scrittura.
Le immagini scelte dai fotografi non descrivono. Suggeriscono, alludono, a volte depistano. Non abbiamo discusso su una singola scelta, su una singola foto. Con Angela abbiamo scelto la stessa copertina senza mai parlarne. Nella tradizione giapponese l’Haiku può, talvolta, essere accompagnato da disegni, stilizzati e lievi, o foto eseguite dallo stesso autore dei versi, diventando così un Haiga. È anche ammesso, come nel caso di questo libro ‘un effetto Haiga’, ovvero, “il supporto di un’ immagine che faccia da sfondo, esente da dettagli dell’Haiku che, anche senza di essa, conserva la sua agevole comprensibilità. Quindi il ruolo della quota ottica è solo quello di creare ambiente, atmosfera, cassa di risonanza, sottofondo emotivo, ossia si deve limitare a un sinestetico perfezionamento visivo dei versi dell’Haiku e non rappresentare la diciottesima sillaba di esso”. (Enzo Tobia).
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